« La tua vita è un dono
prezioso, non gettarlo via ».
Recita così il cartello
all'entrata della “Aokigahara”, la “foresta dei suicidi” in Giappone: è
considerato il luogo ideale i cui morire per via della sua estrema pace e tranquillità:
è qui che, tra gli altissimi alberi dalle foglie verde smeraldo, almeno trenta
persone all'anno dal 1950 si tolgono la vita.
Il Giappone, oltre ad essere l'isola delle
meraviglie in campo tecnologico, è anche il paese del bullismo, diffusissimo
sin dalle scuole elementari, ed è anche il paese con il più alto tasso di
suicidio al mondo tra gli studenti, almeno secondo alcune tra le più
accreditate ricerche.
La "Foresta dei suicidi" in Giappone |
Nei tempi antichi il suicidio
era considerato prova di assoluta innocenza ed orgoglio: i samurai praticavano l’“harakiri”
(« taglio del ventre ») davanti ad una commissione di loro pari affinché
dimostrassero la purezza della propria anima che, secondo la loro cultura,
risiede nella pancia.
Anche gli italiani ne sono
vittime, ma non per onore; tra i giovanissimi è causato dal bullismo che si fa
sempre più spietato a causa di Internet ed anche la crisi economica, in pieno
aumento, ne è complice; i casi di omicidio-suicidio sono, purtroppo, quasi
all'ordine del giorno.
Eppure, il suicidio è considerato
uno tra i peccati più gravi per la religione in quanto implica il rifiuto della
vita che è dono di Dio. Tuttavia, persino Internet ne è stato “contagiato”:
blog e forum spuntano come funghi ed agiscono a mo' di setta segreta,
scambiandosi consigli su come e quando farlo; altri promuovono immagini di
ragazzi e ragazze con tendenze suicide che mostrano frasi “contro la vita” e
tagli sugli avambracci alla stessa stregua di modelli da imitare a tutti i
costi.
La stessa letteratura e
l'arte sono piene di figure romantiche e tragiche che hanno trovato “salvezza”
nella morte: Madame Butterfly che non riuscì a sopportare la relazione
extraconiugale del capitano che aveva sposato; Werther che si arrese dopo che
la sua amata andò in sposa ad un altro; Jacopo Ortis che aveva perso ogni
speranza e Lucrezia per evitare l'onta dello stupro. Ogni volta che si evoca lo
spirito del suicidio, ogni volta che lo si vede passare, le domande sono sempre
le stesse: perché?
Cosa spinge una persona a
desiderare di morire? Probabilmente dolore, debolezza e solitudine possono
essere macigni pesanti da portare, specie per chi non è abituato a combattere o
a resistere. Spesso il seme della morte germoglia in seguito ad una pioggia di
violenza più o meno lieve: abuso, fallimento...
C'è chi è forte come una
quercia e sarà capace di resistere all'onda e chi viene travolto, troppo
fragile per battersi e si lascia trascinare, abbandonato.
Spesso gli aspiranti suicidi
sono trasparenti ed incompresi, urlano messaggi invisibili ed incomprensibili
agli altri e le loro grida di aiuto scoppiano nel rosso feroce del loro gesto.
Vengono accusati di vigliaccheria, debolezza, addirittura pigrizia senza sapere
nulla del peso che gravava sulla loro anima e
di quante volte hanno gridato senza mai essere uditi. Da altri ancora
vengono compatiti per la loro protesta contro la crudeltà della vita stessa e
di coloro che avevano attorno, troppo insensibili per non essersene resi conto.
L'esistenza può essere
considerata come un maestoso albero: in certe stagioni è rigoglioso e sano e
splendente e fiorito, proprio come lo sono certi momenti felicemente trascorsi;
in altre è spoglio, triste, malato, privo di linfa vitale che non appena lo si
vede verrebbe voglia di abbatterlo. È quando quella stessa linfa viene a
mancare che nasce il desiderio di un'altra via apparentemente opposta a quella
della sofferenza continua. Un rapido dolore per raggiungere velocemente una
“vita” serena invece che una sofferenza immensa e continua per un'eternità in
paradiso.
Il colpevole non è sempre
“uno” e quasi mai chi compie il gesto: l'induzione al suicidio è
l'estremizzazione peggiore del bullismo e forse lo è ancora di più far pagare
la colpa ad una sola vittima; o l'eutanasia, tema ancora molto controverso in
Italia dove ci si accusa a vicenda di egoismo: chi è il vero egoista tra chi
sceglie, ormai distrutto, di alleviare il proprio male e chi insiste per tenere
duro, prolungando la sofferenza sperando in un miracolo? Non è una questione
che può essere sintetizzata con un semplice “vita = giusto”, “morte =
sbagliato” o viceversa perché spesso il dolore percepito negli altri diventa
nostro e ci divora e non vorremmo che liberarcene.
La vita è un dono che ci
viene dato e come nostra possiamo farne ciò che vogliamo, scegliendo le strade
che ci sembrano più adatte a noi. Posso decidere di amarmi, accettarmi così
come sono o scegliere di rifiutarmi e ferirmi. L'aiuto che cercherò mi
supporterà ad affrontare le difficoltà che troverò durante il percorso ed a non
crollare davanti ad esse. Eppure, qualora mi ritrovassi solo, senza più alcun
aiuto, senza più forze né voce per chiederlo, avrò il diritto di essere egoista
e, se lo vorrò, di abbandonarmi alla dolce agonia della morte senza dover
essere giudicato vigliacco, pigro o debole; l'esistenza, in quanto nostra, non
possiamo mutarla in dovere per non far soffrire gli altri.
Si pensa che tutti i suicidi
vadano all'inferno, ma dimentichiamo che forse il loro inferno è stato quello
che hanno vissuto sulla terra.